Lettera

Sono un’insegnante di storia e filosofia di un liceo di provincia e vorrei condividere il mio sentire rispetto a ciò che sta accadendo nella scuola pubblica in questo difficile periodo storico.


Quest’anno accompagno alla maturità tre quinte liceo di diversi indirizzi e non è certo un compito facile visto che ho potuto lavorare in presenza forse un mese dall’inizio dell’anno.


Ciononostante come altri colleghi ho cercato di accompagnare i ragazzi a distanza aiutandoli a gestire la frustrazione di non sapere cosa accadrà, la paura della morte e della malattia, la confusione su ciò che è vero, l’ansia da prestazione che risulta intollerabile se la vita richiede altro e le mura domestiche non creano uno spazio protetto di pensiero calmo e profondo.


Ho fatto spesso lezione nella confusione di voci ed emozioni vedendo i ragazzi attorniati da fratelli più piccoli che cercavano di concentrarsi per fare lezione on line o da fratelli diversamente abili che reclamavano spazi di libertà per muoversi e gridare o da genitori sconcertati che avevano perso il lavoro ed erano costretti a muoversi silenziosamente in spazi angusti per sostenere il vivere quotidiano.


Ho fatto lezione per mesi potendoli vedere solo a tratti, sentendo le loro voci stanche e demotivate, i toni apatici che celavano rabbia controllata, il pensiero rallentato e vuoto di idee creative.


Ho fatto lezione cercando di sollevare il mio e loro morale mantenendo viva la convinzione che tutto serve e ogni crisi cela sempre grandi opportunità.


Ho fatto lezione vivendo l’impotenza di non poter raggiungere davvero il cuore di molti ragazzi, di non poterli davvero aiutare dando quell’incoraggiamento che si sprigiona con un abbraccio, una battuta, un sorriso fiducioso, un caffè offerto alle macchinette.


Ho fatto lezione avendo la sensazione di parlare da sola con un peso costante sul cuore perché mi mancava l’educazione vera fatta di sensazioni, sorrisi, comunicazione non verbale, odori e percezioni che esprimono la verità più di mille parole.


Ho fatto lezione avendo la sensazione di non fare lezione, di non poter educare nel senso autentico del termine accompagnando altre anime a partorire la propria verità ed esprimere il potenziale che li realizza.


Davanti allo schermo avevo cuori sempre più feriti e menti sempre più sovraccariche di informazioni inutili perché avulse dalla vita pulsante.


E quando la mattina, durante l’appello, chiedevo ai ragazzi di scegliere alcune parole per esprimere ai compagni come stavano e portare una “buona - nuova” che valorizzasse la giornata precedente molti faticavano a trovare un senso per cui essere grati alla vita perché anche il dono di respirare liberi, camminare nella natura, ridere in compagnia, abbracciarsi, baciarsi e socializzare era un’eco lontano, dimenticato perché negato, che preferivano non riattivare per non acuire la malinconia.


Dopo mesi di educazione irrisoria alternata ad “edu-castrazione” la difesa dall’insostenibile sensazione di vedersi scippati i sogni e la vita e di mettere a rischio la salute delle persone che amano è diventata l’apatia, la piattezza di pensiero critico, l’adattabilità ad oltranza, il silenzio, la chiusura del cuore e la fine di ogni speranza. La frase “Si va avanti, profe!” era la risposta abituale alle mie domande sul loro stato d’animo.


Ma dietro questa difesa la voglia di vivere continuava a pulsare in loro e alcuni talvolta si permettevano il pianto, l’esplosione di rabbia, la disapprovazione, il racconto di momenti di panico sempre più diffusi nelle mie classi.


Quando qualcuno di loro apriva il cuore si creava un filo di ripristinata connessione tra di noi e io mi sentivo privilegiata e grata di poter camminare al fianco delle nuove generazioni sostenendole in un momento psicologicamente così difficile.


Tante volte avrei voluto fare lezione nei parchi, sotto il sole o la pioggia, oppure accoglierli tutti a casa mia pur di rivederli e sentire che insieme eravamo più forti e soprattutto esseri umani reali.


A Pasqua le lezioni a distanza avevano logorato tutti gli animi e gli incontri virtuali non bastavano più neanche a me che, come loro, mi alzavo al mattino demotivata per l’impossibilità di educarli e la costrizione ad istruirli riempiendoli di nozioni che non rispondevano ai loro urgenti bisogni esistenziali.


Eppure ho la fortuna di insegnare filosofia, una materia che aiuta a pensare criticamente, a dubitare per espandere la coscienza, ad intuire la verità per realizzare il bello, il buono e il giusto sulla terra. E insegno storia che permette di decodificare il presente per non ripetere gli errori passati e costruire un mondo migliore. Ho la fortuna di insegnare due materie che solitamente affascinano i giovani ma nonostante questo ho faticato a mantenere l’attenzione nell’asettica distanza creatasi on line e ho visto i ragazzi disconnettersi interiormente, ammutolirsi per non gridare dalla rabbia, spegnersi per non cadere nel panico o buttarsi ossessivamente nello studio per soddisfare il bisogno degli adulti di credere che nulla è cambiato e il vecchio modello scolastico sopravvive incontestabile.


Il richiamo alla serietà, all’impegno, alla costanza nello studio in tempo di pandemia è risultato ai ragazzi anacronistico e folle, quasi una presa in giro nonchè un mancato riconoscimento per gli sforzi fatti e una maturità già conseguita pienamente ad honorem senza bisogno di un’ulteriore prova di esame.


Mantenere la concentrazione quando le emozioni urgono o memorizzare innumerevoli contenuti quando il cuore è ferito per il senso di solitudine, la mancanza di contatto e di dialogo è un’impresa impossibile da realizzare soprattutto se si è giovani e pieni di esuberanza.


Stare fermi sei ore davanti ad uno schermo sovraccarica la mente e abbassa le energie vitali generando un’apatia emozionale e un disinteresse che favoriscono l’insorgere della malattia.


Nonostante ogni mattina dedicassi alcuni minuti alla meditazione, al dialogo da cuore a cuore, alla lettura di un testo significativo per camminare insieme attraverso la gioia di apprendere, l’esplorazione dell’impensato, l’appartenenza che in aula era così forte, dopo mesi ho dovuto arrendermi smettendo di illudermi che possa esistere educazione senza vera relazione.


Così ho atteso pazientemente l’agognato ritorno in classe convinta che tutto sarebbe migliorato e i ragazzi avrebbero gioito nel ritrovarsi a scuola.


Ma tornati in classe molti di loro si sono sono rivelati totalmente cambiati, quasi irriconoscibili, perché estenuati da mesi di frustrante annichilimento, svuotati dalla mancanza di senso, logorati dall’ansia da prestazione che li ossessiona soprattutto a fine anno.


Amareggiati mi hanno rivelato che non riescono più a sostenere una mole di lavoro che riempie ogni spazio della giornata impedendo di avere tempo per ascoltarsi, fermarsi a pensare, annoiarsi per poter immaginare cosa vogliono davvero, chi sono diventati, chi saranno domani quando si muoveranno senza protezione in un mondo che non riconoscono più.


I ragazzi mi segnalano che faticano a socializzare, a vestirsi al mattino, ad uscire di casa per prendere l’autobus, a tornare a guardarsi negli occhi provando il dolore di non riconoscersi più o scoprirsi paralizzati da emozioni senza nome che sentono esplodere dentro ma trattengono per paura del giudizio e vergogna.


Hanno bisogno di mostrare la loro vulnerabilità ferita, di confrontarsi con esperti che spieghino cosa significa essere “senza pelle” e come poter vivere senza alcuna protezione psichica oppure con “un eccesso di protezione” generata dalla paura di tornare a respirare la vita, guardarsi pienamente in viso, abbracciarsi e sentire un dolore condiviso.


Sento che i ragazzi avrebbero bisogno di lasciarsi andare e piangere finalmente insieme.


Nei “tempo del cerchio” che creo in classe questa condivisione è possibile ma è uno spazio limitato che non basta a sciogliere le corazze e lenire il dolore.


E’ uno spazio limitato perchè a scuola non c’è tempo per lasciarsi andare e bisogna essere efficienti, concludere il programma, digerire contenuti controvoglia pur di dimostrare che tutto prosegue come prima.


Anche a scuola i ragazzi devono essere forti, mettere una maschera, non perdere tempo, non disturbare perpetuando quel controllo razionale che da mesi hanno attuato in famiglia dove gli adulti sono spesso troppo fragili e confusi per occuparsi anche della loro vulnerabilità.


I ragazzi pensano che questo non dare voce al sentire profondo e non darsi il tempo di pensarlo per essere prestanti, efficienti e raggiungere gli obiettivi in modo serrato rassicura gli adulti che hanno bisogno di ritrovare una normalità perduta e sentirsi protetti dentro le mura di un sistema che un tempo sembrava normale ma adesso forse non lo è più.


Forse anche il sistema scolastico è malato e forse è tempo di guarirlo radicalmente, forse non ha senso preservarlo agonizzante pur di resistere ad un cambiamento che il virus ha sparso ovunque.


Forse è tempo che la tristezza, la paura, il dolore, il panico, l’incredulità per la follia generalizzata trovino spazio e dignità entro le mura scolastiche fatte di negazione, distanziamento e volti mascherati.


Forse solo così la fame di risposte delle nuove generazioni, l’urgenza sana di comprendere cos’è vero tra le informazioni contraddittorie che i media propagandano, il bisogno di ammettere l’autenticità del sentire e capire come tornare a sognare in un mondo terrorizzato dal futuro diventano bisogni prioritari che la scuola è chiamata a soddisfare se vuole cessare di essere “edu-castrazione”, vuoto nozionismo, un istruire sterile lontano dalla verità e dalla vita nella sua complessità.


A scuola gli insegnanti possono accogliere e contenere i vissuti dei ragazzi, le loro domande sulla morte e il senso della vita, le perplessità sull’attuale crisi politico sociale, sulle vite stravolte e le relazioni d’amore spezzate.


Forse solo così la scuola può tornare ad “educare alla vita” trasformandosi in una formazione autentica.


Oggi più che mai è indispensabile educare i giovani a pensare liberamente affrontando le sfide della vita con soluzioni creative, coltivare le virtù per auto realizzarsi, collaborare per condividere le risorse della terra e preservarle.


Educare è insegnare a pensare e non “trasmettere pensieri già pensati” evitando le domande scomode, le emozioni disturbanti, l’espressione dei bisogni profondi che in tempo di pandemia urgono per essere sodisfatti.


Educare non può ridursi a vuota teoria avulsa dal sentire, dall’immaginare, dal sognare. Educare è accelerare il risveglio della coscienza e la trasformazione personale. E’ sostenere i giovani nella capacità di dare un nome al sentire profondo della loro anima e un senso all’apparente non senso.


Educare è un atto profondo d’amore che si nutre del dialogo autentico, della condivisione emozionale, del prendersi per mano e sperimentare insieme la vita.


Oggi l’amore deve tornare a circolare nelle aule scolastiche.


E nei consigli di classe si deve riconoscere la grandezza delle anime dei ragazzi anziché ridurli a numeri e discutere ore di voti raggiunti con la “pedagogia della paura”.


La pandemia chiede di ripensare il modo di fare scuola per evitare azioni educative che atrofizzano la mente creativa e debilitano il sistema psico fisico causando stress, sofferenza, un abbassamento del sistema immunitario che conduce alla malattia, alla demotivazione e all’abbandono scolastico.


La pandemia chiede agli insegnanti di diventare “mentori relisienti” che affrontano serenamente le sfide della vita, che esercitano il pensiero critico, che guidano i giovani con maturità psichica e spirituale, che incarnano ciò che professano liberi di pensare e relazionarsi in modo fiducioso, capaci di affrontare il disagio mettendosi costantemente in discussione con forza, coraggio e grande umiltà.


Barbara Colosio

Insegnante di storia e filosofia di scuola superiore

Insegna al liceo scientifico, al liceo delle scienze umane e al liceo economico sociale